Simpatia e Allegria della gente d’Africa
di frei Bernardo Ammaral, OFM (traduzione Aurelio Fratus)
Coloro che visitano per la prima volta l’Africa, restano meravigliati nel vedere la facilità con la cui si riuniscono grandi moltitudini di persone per i più svariati motivi: matrimonio, nascita di un bambino, malattia, morte. È molto elevato il sentimento di solidarietà e di partecipazione nei momenti più intensi e significativi della vita, particolarmente in occasione della malattia e della morte.
Quando muore qualcuno, secondo la tradizione, tutto il paese resta paralizzato: dal momento della morte fino alla sepoltura del defunto non si può zappare la terra, si lascia il lavoro e ci si reca sul luogo del decesso. In poco tempo, si riuniscono familiari, amici e persone apparentemente senza nessun rapporto di familiarità, per accompagnare e confortare i membri della famiglia, non solo durante la cerimonia della sepoltura, ma anche prima e dopo. Un detto tradizionale dice: «nella sofferenza siamo tutti una famiglia».
L’africano è naturalmente portato alla compassione; ha una naturale capacità di condividere e di comunicare agli altri sentimenti di affetto, di sofferenza e di gioia, che chiamiamo simpatia. Molte volte questo sentimento oltrepassa i limiti della semplice emozione, per toccare i livelli più profondi dell’anima e della personalità, traducendosi in presenza, ascolto e comprensione amorosa della situazione altrui.
Come si diceva sopra, l’africano è persona dall’ascolto attento, affettivo, paziente e rispettoso. Un ascolto che tocca tutta la persona, e arriva ad immergersi nell’esperienza intima dell’altro, così da formare il senso del “noi”. L’empatia vera avviene quando qualcuno si fa prossimo, cerca con semplicità di porsi al posto del suo interlocutore e si sforza di capire il cuore della realtà a partire dall’esperienza, dal ritmo e dal punto di vista dell’altro.
L’empatia africana è feconda, poiché, attraverso l’ascolto attento ed affettuoso, la persona si apre all’altro, lo accoglie con affetto e fa che egli “nasca” dentro di sé. Nella misura in cui si condivide in profondità, la persona che accoglie ed ascolta fa sue le espe¬rienze, le emozioni, le preoccupazioni, i timori e le speranze di colui che viene accolto.
Per l’africano tradizionale l’ascolto-empatico ha una funzione terapeutica. Ascoltare ed accogliere con amore, è curare lo spirito e il cuore della persona. I saggi-maghi, i medici-curatori, gli anziani sono chiamati “letamaio”, perché è il luogo dove le persone vanno a “buttare” la spazzatura della loro vita. Queste persone trascorrono la maggior parte del tempo a colloquio con i loro clienti, semplicemente ascoltandoli con attenzione. Non ascoltano passivamente, solo con gli orecchi, ma con tutto il corpo, con gesti, con emissione di gemiti, fatti da monosillabi, che assicurano l’interlocutore di essere seguito e lo stimolano a verbaliz¬zare i drammi e le preoccupazioni che ha nell’animo e nel cuore. Dopo ciò gli vengono dati alcuni consigli ed indicati i rimedi e i riti da compiere. La persona si sente sollevata e, spesso, liberata dal suo male; a volte, non ha bisogno nemmeno che gli vengano dette delle parole o che gli vengano indicati rimedi o riti. Se ne va grata, perché è stato curata con l’accoglienza e l’ascolto-empatico.
L’Africa si caratterizza per l’allegria contagiante, l’anima vibrante, il canto, la danza e il ritmo coinvolgente, il carattere caldo e festoso.
C’è, senza dubbio, una grande differenza di atteggiamenti tra gli africani e gli altri popoli di fronte alla sofferenza, la miseria e l’insicurezza della vita. Migliaia di famiglie e di bambini africani vivono ogni giorno in situa¬zione di completa incertezza riguardo al do¬mani. Trascorrono il giorno con la fame, senza sapere dove trascorrere la notte e se mangeranno il giorno seguente, tuttavia, continuano a danzare, accompagnati dai canti, dal ritmo dei tamburi e dal battito delle mani.
Visitando le famiglie e le popolazioni africane, fortemente flagellate dalla sofferenza nei quartieri poveri delle città, nei campi dei rifugiati o nei luoghi dove si ammassano gli sfollati, si rimane profondamente sorpresi per la loro capacità di soffrire con serenità e sempre con il volto sorridente.
Per l’africano la vita è una festa. Ringrazia Dio per il poco e trova sempre dei motivi per celebrare, con allegria, ogni istante che passa come un dono. A volte, mi sorprendo a pensare alla famiglie ricche dell’Occidente, che, pur sedendo attorno ad una mensa stracolma di ogni ben di Dio, sono senza allegria, con i volti tristi e sempre pronte a la¬mentarsi. Mentre le famiglie africane con molti figli, con un po’ di cibo e di bevande, fanno festa tutto il giorno, riempiendo l’ambiente di allegria. L’africano, pur vivendo nella povertà assoluta e in mezzo ad ogni sorta di sofferenza, non si lamenta mai ed è sempre pronto a cantare e a sorridere.
Basta guardare le celebrazioni eucaristiche dei cristiani africani come sono animate e cariche di dinamismo: sono una festa che si prolunga all’infinito senza che nessuno guardi l’orologio. Perché correre? Perché preoccuparsi del tempo, se il Signore ci fa visita e sta in mezzo a noi? Le comunità cristiane in Africa, soprattutto quelle più povere, preparano sempre qualcosa per tutti e qualche momento di fraternità, con canti e danze, al termine della celebrazione. La messa, insomma, è la festa dei fedeli attorno al loro Signore, è un momento di incontro, di convivio e di condivisione dei beni spirituali ed anche materiali. Non c’è incontro, non c’è celebrazione senza festa, non c’è festa senza mangiare insieme qualche cosa. Non è importante la qualità e la quantità del cibo, ma l’intensità della relazione, dell’incontro, della comunione e della condivisione. L’africano mostra la sua gioia cantando e danzando. È tutta la persona, corpo e spirito, che manifesta la sua gioia.
Da dove l’africano estrae l’energia e la motivazione per questa allegria e per questa capacità di fare festa in mezzo a tanta sofferenza? Penso che la fonte della sua allegria e della sua speranza risiedano nella fede in Dio e nel senso di comunione fraterna.
tratto da "Famiglia Nostra" dicembre 2009