Agosto 2002 : Racconto di un’esperienza vissuta in Mozambico

<Ma perché non andate con il machibombo? Ci mettete lo stesso tempo che ci mettete ad andare in macchina e state anche più comodi.>>

<<Ma tu ci sei mai andato?>>

<<No, ma mi hanno detto che si viaggia comodi e ci si mette poco tempo>>.

Le ultime parole famose: otto ore e mezza per fare 450 km seduti quasi uno sopra l’altro con un autista che guidava come un pazzo rischiando un frontale dietro l’altro.

Ma partiamo con ordine.

Quest’estate in agosto io e Carlo, mio cugino,  eravamo ospiti in una missione in Mozambico a Marracuene, un piccolo centro a 35 km da Maputo, la capitale del paese.

Dopo aver passato lì quasi un mese, avevamo deciso di andare a visitare un’altra missione 450km più a Nord, a Maxixe.

Non avendo mezzi propri e non avendo nessuno che ci accompagnasse avevamo deciso di andarci con il machibombo.. Noi non avevamo ben realizzato cosa ci aspettava, e non avevamo desistito dai nostri intenti neanche quando Natividade, la ragazza mozambicana che ci doveva accompagnare, aveva detto: <<ma voi siete matti! Ci mettiamo moltissimo tempo e viaggiamo scomodi>>

<<Ma se padre Daniele ha detto che sono comodi e veloci!?>>

<<Ma cosa volete che ne sappia padre Daniele, lui non c’è mai andato.>>

Già, “ma cosa volete che ne sappia …”, noi inflessibili, invece di fidarci di chi c’era già andato, ci siamo fidati di chi non c’era mai andato. Fu così che quel venerdì mattina alle cinque eravamo sull’unica strada asfaltata che taglia da Nord a Sud il Mozambico, ad aspettare la chapa che ci portasse a Junta (periferia di Maputo) dove avremmo preso il machibombo.

La chapa (che letteralmente significa lamiera) è uno dei mezzi di trasporto pubblico più usati in Mozambico; consiste in un pulmino, di quelli che in Italia potrebbero contenere al massimo nove persone, adattato per 18 posti a sedere, e che però in realtà ne accoglie molti di più: infatti si smette di caricare gente non quando sono finiti i posti, ma quando sono finiti i passeggeri: quindi praticamente mai.

L’”equipaggio” è formato dall’autista e da un’altra persona che, stando attaccata fuori dalla porta scorrevole laterale urla a tutte le persone che incontra la destinazione della chapa.

Se una persona vuole salire fa un gesto, la chapa si ferma e la persona sale.

Dopo mezzora di attesa ecco che arriva la chapa, vuota e con il chapeiro (così si chiamano gli autisti delle chapas) mezzo addormentato. Cominciava infatti appena ad albeggiare e quindi le persone fortunatamente erano poche. In poco tempo siamo a Benfica, che è una specie di terminal, dove arrivano le chapas dalla campagna e da dove partono quelle che vanno in città. Qui c’è un gran mercato, moltissima gente in giro che vende di tutto: dai rotoli di carta igienica alle marmitte per le auto.

Tutto il rumore e la confusione che fanno i commercianti e i clienti nelle contrattazioni è coperto però dalle urla delle decine di chapeiros: <<Shkelene>> <<Junta>> <<Museu>> <<Marracuene>>  <<Baixa>> <<Bobole>>, ed altre decine di posti dentro e fuori Maputo.

Sulla chapa che prendiamo diretta a Junta c’è una donna con un bambino che avrà si e no quattro anni e che avendo il raffreddore si pulisce il naso nella maglia.

Io allora, da bravo occidentale consumista, gli porgo un fazzoletto di carta ma lui mi guarda con sguardo interrogativo non capendo a cosa serve. Mimo come si usa e lui, capito il messaggio, prende il fazzoletto, si soffia il naso e poi gentilmente me lo porge.

Arrivati a Junta sembra di essere arrivati in un girone dell’Inferno dantesco.

Un piazzale enorme pieno di gente che urla, che contratta che cerca di vendere cibarie e oggetti di ogni tipo a chi deve partire.  Ci sono molte donne, vestite alla maniera mozambicana, con magliette colorate e con la  capulana attorno alla vita.

La capulana è un pezzo di stoffa colorata che le donne usano come gonna, legandosela attorno alla vita, o per legarsi i bambini sulla schiena.

Molte hanno cesti di cianfrusaglie o taniche di acqua sulla testa; ne passa una con un bambino legato sulla schiena, uno davanti, un cesto in testa e una borsa in mano.

Ci sono poi gli autisti dei machibombos, ognuno che esalta le doti del suo mezzo cercando di convincerti a prendere proprio quello. Come a Benfica anche qui vengono urlate le varie destinazioni, ma questa volta i luoghi sono più lontani: <<Xai-Xai>> <<Inharrime>> <<Maxixe>> <<Morrumbene>> <<Massinga>> <<Chimoio>> <<Beira>> ecc.

E poi ci sono loro, i machibombos: una distesa di pullman scassatissimi e stracarichi. Sul tetto hanno caricato di tutto, per un volume che è quasi quanto quello del pullman: ci sono materassi, biciclette, sedie, una sedia a rotelle, sacchi di carbone, taniche e pacchi, un infinità di pacchi.

E poi su alcuni ci sono anche delle capre!!

Subito si avvicinano varie persone chiedendoci dove siamo diretti, e saputo che dobbiamo andare a Maxixe tutti cercano di trascinarci sul loro machibombo..

Natividade chiede a uno dei tanti offerenti di poter vedere il mezzo: ci inoltriamo in mezzo ai pullman seguiti da un folla di persone.

Qui infatti è molto raro vedere dei bianchi che prendono i “mezzi pubblici” per cui per molti siamo un attrazione e ci guardano come se fossimo dei marziani.

L’autista ci dice che non ha intenzione di fare molte fermate da li a Maxixe, e che per le 13 pensa di arrivare. Noi non sappiamo che fare e nel frattempo la folla si è divisa tra chi sostiene l’autista e chi cerca di convincerci a cambiare mezzo. Alla fine sebbene Natividade non sia molto convinta dell’efficienza del machibombo che ci viene proposto, sopraffatti dalle insistenze dell’autista saliamo.

Una volta a bordo la prima sorpresa: la disposizione dei sedili. Mentre in Italia i pullman hanno due posti per lato, qui ne hanno due da una parte e tre dall’altra, ma nello stesso spazio.

In più le file sono praticamente appiccicate una all’altra e infatti abbiamo le ginocchia piantate nel sedile davanti.

Fuori intanto arriva sempre più gente e i machibombos cominciano a riempirsi.

Sui tetti vengono caricati tutti i pacchi e vengono fatti  gli ultimi acquisti da parte dei passeggeri.  A parte poche eccezioni i prodotti venduti sono cose che si potrebbero benissimo trovare anche in una stazione italiana: lattine di Coca Cola, Fanta, Sprite, bottigliette di acqua minerale, sacchetti di patatine e scatole di biscotti, panini e dolcetti, banane e mele, giornali e sigarette.

Nel frattempo il nostro pullman si è riempito e come da orario, alle sette e un quarto partiamo, ma per non andare molto lontano. A Benfica infatti facciamo già la prima sosta, veloce per fortuna, e alle otto ripassiamo da Marracuene, ma questa volta diretti verso Nord.

Man a mano che saliamo verso nord il paesaggio cambia, passando dalla savana, alla palude ai boschi di palme. Vicino a Maputo infatti sembra di essere nella savana dei documentari e ci si aspetta di veder sbucare da un momento all’altro da dietro un albero il collo di una giraffa o di sentire arrivare un branco di elefanti.

Purtroppo in Mozambico, la guerra civile oltre che uccidere migliaia di persone e distruggere tutte le infrastrutture del paese, ha anche sterminato quasi tutti gli animali, e quelli che sono rimasti si sono spostati in zone molto isolate, lontane dall’uomo.

Dopo un ora di viaggio la comodità del machibombo si fa già sentire: non riusciamo praticamente a muovere le gambe e a turno dobbiamo spostarci in avanti perché altrimenti non ci stiamo con le spalle.

La strada man a mano che saliamo diventa sempre più brutta e anche le macchine che la percorrono diminuiscono molto: ormai si vedono solo machibombos e qualche rara jeep, guidata molto spesso da un bianco. Il nostro autista comunque benché il traffico sia minimo riesce lo stesso a rischiare più di un incidente, sorpassando quando nell’altra corsia arrivano altri veicoli. In più qui chi sta per essere superato fa di tutto per non esserlo e quindi non facilita per nulla la manovra all’altro.

All’entrata di ogni centro abitato l’autista si mette a suonare il clacson, si ferma lungo la strada e il pullman viene assalito dalla gente del luogo che cerca di vendere qualcosa ai viaggiatori.

La merce venduta man a mano che ci si allontana dalla città, diventa molto più povera ed è costituita quasi interamente da frutta, anche se le lattine di Coca Cola non mancano mai.

Passiamo sul ponte sul fiume Limpopo ed entriamo a Xai-Xai, il capoluogo della provincia di Gaza, che si trova a metà del nostro viaggio.

Qui il machibombo fa l’unica sosta  in cui i passeggeri possono scendere per andare in bagno e sgranchirsi le gambe.

Io scendo e vado a cercare un bidone delle immondizie, per buttare due lattine e un pezzo di pane vecchio di una settimana che mi era restato in fondo allo zaino. Incontro due bambini vestiti di stracci che mi chiedono il pezzo di pane, e io ragionando da occidentale, rispondo che non è buono perché è vecchio, ma fatti due passi mi rendo conto di quello che ho detto e torno dai bambini e li do il pane.

Xai-Xai è la patria del presidente del Mozambico Chissano e dicono che fosse molto bella, ma è stata duramente colpita dall’alluvione del 2000. In centro stanno rifacendo l’arredo urbano e la prima cosa che viene in mente è: ma perché buttano i soldi a fare cose del genere quando poi la gente muore di fame? Guardando poi il manifesto dei lavori si legge che l’opera è stata finanziata dall’Unione Europea!! Fortunatamente abbiamo finanziato anche il ripristino di 50 km di strada prima di arrivare a Xai-Xai, che erano stati portati via dall’alluvione e i cui lavori sono ancora in corso.

Nella zona di  Xai-Xai crescono le piante del tek, il famoso legno africano; anche Xai-Xai come tutte le città del Mozambico sembra essersi fermata alla partenza dei portoghesi.

Quasi tutti gli edifici in muratura infatti sono stati costruiti prima del 1974.

Ripartiamo ma ci dobbiamo fermare due volte perché perdiamo il carico dal tetto.

Comincia anche a piovere e entra la pioggia dal mio finestrino a cui manca la guarnizione.

Ad un certo punto incontriamo un altro machibombo e si vede volare qualcosa di biancastro: l’autista frena subito e un uomo scende e corre a prendere niente meno che il vetro di plexiglas del finestrino dell’autista, che da qui in avanti viaggerà senza vetro laterale incurante della pioggia.

Per fortuna smette presto di piovere anche se il cielo rimane coperto.

Passiamo vicini a un campo minato, residuo della guerra civile che dal ’76 al ’92 ha insanguinato il paese.

L’orologio segna le 13, ma da Maxixe siamo ancora lontani, anche se cominciano a esserci le prime palme da cocco, tipiche di quella zona. Anche le case cambiano: ora i tetti invece di essere fatti di canne, sono fatti di foglie di palma intrecciate e le pareti sono fatte di terra rossa.

I tre seduti dietro di noi hanno finito la bottiglia di Jack Daniel’s che si erano comprati a Junta e discutono di religione, in particolare di quella cattolica.

Intanto la signora seduta davanti a me continua a comprare roba: una stuoia,  uno scopino fatto di foglie di palma, delle banane, una mela e un panino, mentre un altro signore si è comprato un sacchetto di pesci che puzzano in un modo impressionante.

L’autista probabilmente comincia a essere stufo e continua a fermarsi per fare acquisti, con molta calma. Si ferma da un venditore di legna e sceglie ad uno ad uno i pezzi di legna da ardere, mettendoci mezz’ora.

Per fortuna alle 15.30 arriviamo a Maxixe, la nostra destinazione.

E’ una cittadina molto bella, di fronte a Inhambane, uno dei più antichi insediamenti portoghesi. La leggenda vuole che Vasco de Gama quando arrivò li chiese ai pescatori del posto quale fosse il nome  del loro villaggio e loro, non capendo il portoghese, dissero “inhambane”, cioè “sei il benvenuto”,  e  Vasco de Gama così diede alla città, che poi vi fondò, il nome di Inhambane.

Un po’ stravolti scendiamo dal machibombo.

Sul machibombo, sicuramente non abbiamo viaggiato comodamente come in automobile, ma abbiamo potuto vedere cose e provare emozioni che mai avremo vissuto con un altro mezzo di trasporto.